Tulpan




















    “Tulpan” è un condensato di etnie, storia di individui che diventano gente, gente di terra che diventa l’ancestrale ricordo di un popolo, la sua ultima scaglia, prima che sia travolto dalla modernità. E’ un racconto tanto fugace, quanto lontano, in uno spazio deserto dell’Asia, errando nella steppa arida, arida come una gerarchia sociale. Un tulipano (Tulpan) sboccia ed ha la corolla nitida ed assopita, ma viva, di una fotografia che congela l’immagine, attenuando il colore, istantanea che immortala un tempo che non può essere dei colori sprizzanti e voraci della quotidianità occidentale. E’ un film lento, irto di complessità. I rumori sono amplificati e costituiscono un fuori campo quasi irreale, non tanto per l’essenza dei rumori stessi, quanto per l’uso che ne stravolge un’ottica classica. I rumori, del gregge belante, del vento, naturalistici, irrompono nella scena senza la pacificazione idilliaca, senza ritratti agresti, forti come pochi, e la musica del canto di una ragazzina diventa così assordante da soggiogare l’aspetto visivo e relegare i Boney M di anni fa a semplici motivetto di un ragazzo che sogna la città. E’ il dualismo tra città, miraggio lontano, sogno di una ragazza che non ha volto, Tulpan, appunto, personaggio assente e presente, nascosta tramite una porta, una tenda, ad occhi fugaci, donna forse della modernità del Kazakistan, e campagna, steppa tradizionale, ordine prestabilito, pastori erranti, nomadismo e matrimoni combinati. Dvortsevoy è un regista che ampia il campo con l’uso della macchina a mano: il fuori campo sembra non esistere, giacchè l’entrata degli animali proviene dalla stessa direzione dove è posta la macchina da presa. Il fuori campo diventa metafora di antinaturalistico, in quanto è principalmente la natura ad essere seguita passo dopo passo, allargando l’immagine e spostandosi su inquadrature del tutto avulse da un contesto narrativo, con notevole valenza metaforica, o meglio poetica. Non è puro realismo, ma l’avvicendarsi di realtà ritratte con mano magica ed occhi minuzioso. L’aridità diventa un quadro, senza locus amoenus né consolazione naturale. Vince la campagna, giacchè la città è il fuori campo, di cui emerge qualche briciola innocente, senza imprimersi. Tulpan è un’elegia drammatica e comica, vitale, è un canto di festa, è un rapporto di vicinanza con gli uomini e con gli animali, è un modo di concepire la vita nella semplicità, pensando ad un futuro diverso, cercando di conciliare la vecchia tradizione con le esigenze dell’uomo moderno. I suoi personaggi sono come persi nello spazio indefinito e nel tempo, con elementi extra-diegetici che corrispondono ad un contatto con il mondo nuovo. Il veterinario usa un sidecar, la radio trasmette notizie di ogni parte del mondo, la cultura arriva nel fare non nell’imparare. La comunità famigliare non è avulsa da litigi ma è stretta da un vincolo forte, molto simile al modello occidentale tra screzi e divertimenti. Una porzione di mondo piccola si affaccia sul grande mondo cinematografico: il contrasto è forte, la linearità facile, il ritmo tenue, le immagini scioccanti. Il contatto con gli animali è fortissimo e si mostrano scene di parto che suonano scabrose all’occhio civilizzato, irritanti, ma non possono essere divelte nella raffigurazione di un mondo che ancora sussiste. Consigliato a chi cerca un film piccolo, premiato, naturale ed ipernaturale, ricco di paradossi, lento, poetico anche quando sembra brutale. E’ un viaggio verso un angolo di cielo, il nostro stesso cielo, un lusso da immortalare per chi cerca nuove esperienze.

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