Freddo il marmo, freddo il film


Miami Vice

Tracciare un profilo di Miami Vice è come essere in preda a pensieri offuscati, è come analizzare una mente che giace in una condizione pindarica, ansiogena. Ma non solo. E’ disarcionare la prevedibilità dell’evento, disincrostarla dalle inflessioni di un passato televisivo. E’ mediare il sentimento, senza cancellarlo. Miami Vice non ha alcuna organicità. Sullo sfondo, è un action-movie, uno dei soliti action. Per molti, l’elemento di novità sta nell’irrisolto. In realtà, a dire il vero, l’intreccio viene del tutto dipanato, anche dal punto di vista sentimentale, e il film ha un suo merito proprio nella risoluzione delle sottotrame, indipendentemente da come esse siano e da come vengano sviluppate. L’irrisolto non è di scrittura, ma di pensiero. Il pensiero che un action movie possa continuare, sfruttando le stesse peculiarità. Siamo sui livelli di James Bond o di Indiana Jones (nel genere avventura) e ne abbiamo, sinceramente, abbastanza. Analisi di mercato, diritti di vendita, price-maker e budget. Da un punto di vista critico, è evidente che il lavoro tecnico di Michael Mann sia a livelli ottimali e non venga inficiato dall’ alta definizione. Le scene d’azione non sono fini a sé stesse, ma evolute in un preciso contesto di sceneggiatura. E i “movimenti” fotografici ricordano più Manhunter che Collateral. D’altronde Los Angeles non è Miami. Ritorna il mare, infinito, vasca senza confini e si rivede il cielo, dei suoi dipinti mirabili. L’immagine è poetica, sebbene dominata dalla tecnologia. Il sistema spionistico sfrutta qualsiasi mezzo, anche se la psicologia del luogotenente del capo del narcotraffico è spicciola e risiede in un avvertimento più proiettivo che basato su fatti. Lo stile è opprimente, anche nel sonoro. Le scelte musicali (di nuovo una discoteca, come in Collateral) sono sboccate, spavalde, ed echeggiano il nu-metal melodico, finito chissà dove, magari in un tentativo di finta innovazione con l’hip-hop di Jay-Z, la regia e la fotografia sono laccate. In verità, in ciò c’è organicità, data l’anima clippara ed ultramoderna di tali generi musicali, ma la disorganicità emerge sul lato storico ed in parallelo alla serie degli 80’s. Infatti, è alquanto disturbante la formalità eccessiva, solo in paragone alla diversa caratura tecnica (e quindi musicale) che risiedeva nell’originale telefilm. Passiamo ad un altro livello, che, in genere, è la molla della capacità emozionale. L’interpretazione e la sceneggiatura. In questo caso, il discorso è più complesso. Gong Li vive un percorso non del tutto credibile, anche se l’interpretazione è del tutto in linea con il segno del suo personaggio. La mancanza di veridicità, di per sé, non è un limite. Ma, anche in questo caso, il risultato stona troppo con qualsiasi sentimento di immedesimazione o di vicinanza. Colin Farrell è un carattere complesso, inquieto, arrabbiato, mancante di stile. Va detto che il piglio di Farrell è sempre il solito, occhio corrucciato, sguardo perso, ed è molto distante dall’introspezione raggiunta nel suo film migliore, “In Bruges”. Nei panni di Sonny, la base di partenza è buona, ma i difetti si fanno troppo vistosi. Jamie Foxx è elegante, minimalista, nei panni di Rico. Peccato che, in questo caso, manchi un minimo di lettura umana. Se l’imperfezione nella resa dei personaggi è voluta per mettere in risalto la perfetta funzionalità tecnologica (e Mann non ci sembra aspirare a questo), allora perché non definire un’imperfezione di ragione umana? Esercizio di stile, in fin dei conti, tra pregi tecnici e difetti emozionali. Visione, forse, così stratificata da risultare incomprensibile. E disorganica. Senza genialità.


Giudizio numerico: 5/10

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