Cherì








Stephen Frears attinge a Colette e, a 20 anni di distanza, dipinge una nuova relazione. “Le relazioni pericolose” sfidavano il tempo, la censura, soggiogavano la morale, scabrose, settecentesche. Era un’epoca prerivoluzionaria e il potere estorceva con forza tutto ciò che volesse…All’alba del Novecento, una nuova era. Le cortigiane acquistano un potere sempre maggiore, avulse dalla società, legate tra loro per necessità, tra inganni e miriadi di colpi bassi. Le classi sociali più povere possono aspirare a raggiungere una certa ricchezza, attraverso il corpo venduto alle logiche del mercato e del potere. La Belle époque ha un fascino estremo, derivante dall’Art Nouveau, dalla asciuttezza elegante di abiti più maneggevoli, dalla tragicità del suo interrompersi, fiammella accesa e subito spenta dalla Grande Guerra. E’ in questa nuova fase che una nuova relazione scocca, una relazione che non crede di essere d’amore e vive di etichette e costumi sociali. Léa de Lonval viaggia sui binari dei vecchi treni, del passato. L’amore è sconosciuto a chi ha da sempre praticato l’arte dell’amore con chiunque. Léa è giovane, all’apparenza, bella come solo Michelle Pfeiffer poteva essere. Madame Peloux è gretta, imbambolata in un mondo di ricordi, grassa da sembrare ripiena di ogni oscenità, tagliente, cinica e falsa. Kathy Bates rende magnificamente, grazie a suoi tratti non delicati, una ruvidezza sguaiata che sta al suo personaggio come la delicatezza sta a Lèà. Entrambe le attrici sono completamente in parte. La Pfeiffer è drammatica nel senso più complesso della parola, è viva, quando molte delle sue compagne non sono che morte e sepolte nelle loro case. Kathy Bates è un reliquiario in carne ed ossa, in una casa in cui ogni particolare eccede, come l’immagine di chi vi abita. Cherì, figlio di Madame Peloux, è il punto d’incontro tra le varie donne, in un quadrato che comprende la sua giovane sposa. E’ apatico, come ogni giovane, vestito alla Oscar Wilde con meno colore, amante delle perle. Rupert Friend è un discreto attore, in parte, dato l’aspetto scialbo e privo di virilità del personaggio, come da romanzo. Frears rinnova la sua attenzione all’imprevedibilità del sentimento amoroso, ma, pur salvando i suoi characters, a livello di compassione, ne sottolinea come, nonostante la dimensione esterna, sia personale la scelta del loro futuro. Tecnicamente, si nota, caratteristica non minimale, l’uso di un montaggio ellittico. Ciò predispone a dei salti temporali, attraverso l’espediente del narratore esterno e, a livello di sequenze, gli iati temporali sono soggetti ad un repentino, quanto inaspettato cambio di inquadratura. Si tratta di una caratteristica molto adatta ad un film in costume, ed in linea con i frequenti passaggi in avanti della cronologia del romanzo di Colette. La fotografia tende, nell’uso di una luce che arriva di fronte, ad appiattire le immagini, come accadeva con i Fauves. I colori si distinguono a seconda degli ambienti. A curare il suono, Alexandre Desplat che rinnova uno stile già esibito in altri film con un sonoro di classe, a volte ispirato, a volte tedioso. Consigliato agli amanti dell’arte e dei film in costume, a che ha amato il Frears delle “Relazioni Pericolose”, a chi ama delle pellicole con battute fulminee, a chi adora la compostezza di Michelle Pfeiffer e le storie sentimentali, indipendentemente dal loro esito. Léà si guarda allo specchio: l’ultima inquadratura cita la Glenn Close di 20 anni fa. Sthephen Frears si conferma un buon regista, che sa scegliere i suoi attori, tra qualche passo falso e lungometraggi perfettamente riusciti.

Commenti