Review 2012 - Paradiso Amaro


















Un dramma/comedy ibrido per Alexander Payne e fin qui nulla di nuovo. L'apprezzato regista di lontana origine greca, ha all'attivo pellicole piuttosto atipiche che conservano, in fin dei conti, una sorta di continuità tematica e poetica. Se "Election" è la riot-comedy surreale e decisamente pimpante ed è parzialmente (ma solo parzialmente) fuori dal cerchio "drammatico", pur sviluppando contenuti "black" tutt'altro che pacificanti, "Sideways" è un "On the road" classico, in bilico continuo tra commedia e dramma, senza una possibilità di catalogazione se non quella di "Wine-movie", considerando l'elemento unificante del tragitto dei numerosi personaggi. Più vicino, ma solo in parte, nelle premesse, a quest'ultima fortunata pellicola è "A proposito di Schmidt" per l'ovvio paragone con la dipartita improvvisa della moglie per il neo-pensionato burbero Jack Nicholson, mentre "La storia di Ruth, donna americana" è decisamente uno sguardo meno interiore e più politicizzato sull'eterna disputa abortista o meno. Un continuo passaggio dall'esterno all'interno domina l'ottica del regista, che riesce, a mio parere, ad essere caustico e ottimo indagatore nella definzione di complesse contraddizioni sociali, mentre si chiude su sè stesso, con altrettanta precisione, ma senza troppa originalità, nelle storie individuali. "Paradiso Amaro" è una sorta di sintesi dell'attitudine introspettiva del regista, una storia carica di diversi umori, che non lesinano un intelligente "politically uncorrect", in cui emerge, con una forza dirompente rispetto alle dinamiche stesse della sceneggiatura, l'ambientazione hawayana, non solo da un punto di vista paesaggistico, ma soprattutto, attraverso il riferimento diretto ai "Descendants" del titolo originale, alla "storia" e al costume dell'arcipelago statunitense omonimo. Al di là della scenografia naturale che sembra davvero impregnata di sinestesie che colpiscono lo spettatore, "Paradiso Amaro" è un'opera intima e ad argomento drammatico, ma non si dimentica di essere anche fortemente vitale, a volte anche troppo rispetto alla storia centrale, e fonda su questo gioco di contraddizioni umane tra dramma e commedia un motivo di parziale originalità e di continuità con le esperienze precedenti di Payne, pur mostrando eccessi e scarti troppo marcati con un atteggiamento poco realistico nello sviluppo dell'azione narrativa. Lo screenplay, non originale (tratto da Kaui Hart Hemmings), probabilmente si aggiudicherà la statuetta più ambita, l'Oscar, non immeritata, anche se qualche limatura sarebbe stata auspicabile, nel tentativo di integrare le diverse anime del testo. La forza del film sta anche nel cast, corale (Shailene Woodley la sorpresa) e con personaggi fortemente caratterizzati e soprattutto nell'incisività drammatica di George Clooney, che mette da parte aria da piacione e si ritrova misurato ed intenso ad interpretare un padre assente e distratto, con moglie in stato di coma e una serie di problemi sia famigliari che lavorativi da sciogliere. Interessante è soprattutto, anche in questo caso, l'angolazione scelta dal regista, che si diverte a creare una storia in progress e a capovolgere clichè pregressi del melodramma classico, con un tocco personale, in bilico tra teatralità dell'ingresso dei personaggi e scrittura radicata e accentrata degli stessi characters, che si mostrano solidi e realistici, con qualche sfumatura naif che non guasta. Un film di personaggi più che di azioni, di umori variabili più che di testa.

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